Il ponderoso volume Magic and the Dignity of Man: Pico della Mirandola and His Oration in Modern Memory rappresenta senza dubbio il naturale epilogo e il coronamento delle ricerche che Brian Copenhaver va conducendo da ormai quasi un ventennio intorno alla figura e all’opera del Mirandolano. Ricerche che ci restituiscono un’immagine ancora intrigante dell’autore della celebre Orazione, concentrandosi, in particolar modo, sulla storia intricata della circolazione e delle alterne fortune di quell’opera famosa: un testo che, pur non essendo mai stato pubblicato dal suo autore e pur essendo stato ignorato per secoli, continua oggi a essere ricordato come il manifesto della filosofia del Rinascimento, in cui sarebbe contenuta la prima, potente dichiarazione degli ideali moderni di libertà e dignità umane.1
Pur muovendosi nella direzione di quegli studi che già da tempo ci hanno messo in guardia sulla possibilità di formulare una lettura attualizzante dell’Orazione,2 Copenhaver ci avverte in via preliminare che la sua non sarà una metodica disamina della sconfinata bibliografia pichiana e della ricezione della sua opera attraverso i secoli. Piuttosto, il suo vuole essere un contributo che si concentra sulla fama di Pico della Mirandola, così come si è andata modificando dalla fine del Quattrocento ai giorni nostri, illuminando di volta in volta un aspetto diverso di un personaggio straordinario e complesso, che, come ci ricorda Copenhaver, è stato filosofo, classicista, mistico, cabalista, genio, studioso, asceta…3 La decisione di concentrarsi in particolare sull’Orazione dipende dal fatto che proprio su quest’opera fa principalmente leva la reputazione di cui il Mirandolano continua a godere all’interno dei curricula accademici europei e nordamericani e che trova la sua espressione più sintetica ed efficace in quelle che Copenhaver chiama ‘Pico Boxes’.4 E, di rimando, il modo in cui è stato letto e interpretato questo testo, in particolare a partire dal XX secolo, ha a sua volta contribuito a modellare un’immagine dell’Umanesimo che, secondo Copenhaver, non corrisponde alla sua concreta realtà storica.5
Questo lavoro di Copenhaver, quindi, si sviluppa su più livelli e il pubblico che coinvolge non può essere ristretto alla cerchia degli studiosi che si occupano e si sono occupati di Pico della Mirandola. Il volume, infatti, presenta certamente una netta presa di posizione specificamente in merito all’interpretazione dell’opera di Pico, ma, attraverso la messa in discussione della ricezione tradizionale del lavoro di un’ «icon of the cultural construct now called ‘humanism’»,6 a essere messa in discussione è la rappresentazione storiografica di un’intera epoca, che si considera il vestibolo della modernità.
La tesi di Copenhaver è tanto chiara quanto audace (ma solo apparentemente): Pico della Mirandola non ha mai scritto una Oratio de hominis dignitate; almeno non nella forma e nei toni con cui si fa comunemente riferimento a questo testo. Pico ha sì scritto un’Orazione, ma il suo contenuto e la sua funzione sono ben lontani da ciò che il XX secolo e, in particolare, la storiografia post-kantiana ci hanno tramandato, sovrapponendo categorie e concetti filosofici moderni a un contesto storico e filosofico che non poteva averli originati. La prima parte del suo lavoro, quindi, è costruita come una vera e propria pars destruens, che si sviluppa in due direzioni distinte e complementari. Da un lato, sottoponendoci una dettagliata analisi del concetto di dignitas, Copenhaver ci dimostra che questo non è né poteva essere il tema di Pico. Dall’altro lato, lo studioso, attraverso la ricostruzione delle ‘storie’ su Pico della Mirandola che hanno cominciato a circolare sin da quando il Conte era ancora in vita, ci mostra come l’immagine di ‘campione’ della dignità e della libertà umane si sia formata solamente in tempi relativamente recenti e seguendo una linea interpretativa ben precisa.
Ma per Copenhaver non si tratta solamente di dimostrare che cosa l’Orazione di Pico non è o non è stata. La seconda parte del suo lavoro, infatti, è un commento approfondito dell’Orazione (della quale Copenhaver ci fornisce in appendice una sua traduzione) che costituisce la pars construens dell’intero lavoro e che ci rivela i segreti di un’opera che, attraverso il ricorso ad un sapere allora sconosciuto alla maggior parte dei filosofi e degli studiosi d’Occidente e che Pico ha avuto il merito di introdurre nella discussione filosofica, nascondeva l’invito e le istruzioni per realizzare l’ideale ascetico e cabalistico dell’annullamento del sé in Dio.
È cosa nota che l’Orazione è stata scritta come discorso introduttivo delle 900 Tesi che Pico intendeva discutere pubblicamente a Roma alla fine del 1486. L’immediata condanna papale di tredici di quelle tesi e la successiva messa al bando dell’intero libro stanno probabilmente alla base del silenzio di Gianfrancesco Pico – nipote di Giovanni Pico e autore della famosa Vita a lui dedicata – su quest’opera dello zio, che egli considera poco più che uno splendido esercizio di retorica, definendo così uno standard per gli interpreti successivi. Infatti, Copenhaver ci avverte che «before the nineteenth century, few of them discussed the work for which the prince is now best remembered, his Oration».7 Ma da quel momento in poi la fama di Pico e della sua Orazione ha continuato a crescere, tanto che «by the end of the twentieth century … the speech had become a meme. Pico was a fixture in dozens of textbooks meant to explain world history or Western civilization or Renaissance to college students».8
Per spiegare questo passaggio, Copenhaver introduce uno dei protagonisti della sua storia della fama di Pico e della sua Orazione. Si tratta, sorprendentemente, di un filosofo molto più tardo, al quale si deve, suo malgrado, la riscoperta di quel testo ignorato per secoli: Immanuel Kant. E il ruolo che il filosofo di Königsberg gioca nelle vicende pichiane è sia filosofico, in senso stretto, che storiografico. È Kant, infatti, ad aver elaborato una teoria della ‘dignità’ (Würde) come «absolute and intrinsic value, possessed only by “morality and the humanity insofar as it is morally capable”»,9 cioè come un possesso esclusivo e inalienabile degli esseri umani, così come è stato sancito, nella sua forma più celebre, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nel 1948: non a caso, l’anno di pubblicazione di The Renaissance Philosophy of Man,10 il testo con cui Pico ha raggiunto l’America.
Tuttavia, nell’Orazione la parola dignitas compare solamente due volte: nel primo caso «dignitas is paired with gloria as a prize held by angels, not humans»; nel secondo
dignitas … describes the philosophical preparation that precedes the esoteric part of Pico’s curriculum. The paring there of dignitas with emolumenta (‘advantages’) also makes this second instance of the word, denoting the value of philosophy, a comparative and relative term.
Per Copenhaver, ne consegue che «In neither case does dignitas belong to human persons, except aspirationally, and neither use justifies ‘dignity’ as a translation, with all the Kantian baggage of the modern English word».11
D’altra parte, non si tratta solamente di verificare che la dignità non è il tema dell’Orazione di Pico, ma anche che essa non poteva in alcun modo esserlo, dal momento che quel concetto è un costrutto post-Illuminista che non trova alcuno spazio nel contesto filosofico e culturale dell’umanesimo. A riprova di ciò, Copenhaver prende in considerazione l’opera De dignitate et excellentia hominis di Giannozzo Manetti, «the only finished piece of Latin prose from the Quattrocento that claims to be about dignitas»12 e, al contrario di Pico, una dignitas distintamente humana. Ma, ci si rende presto conto – ci dice Copenhaver – che la definizione che Manetti ne dà (definizione nella quale confluisce una lunga tradizione sia classica che cristiana) è più retorica che filosofica e che «the word is relative, expressing rank and superiority. The d[ignity] in question is neither unrelatable, nor intrinsic nor incomparable».13 Anche la genuina e, in questo caso, veramente innovativa rivalutazione dell’elemento corporeo, che Manetti presenta a sostegno della sua posizione, sbiadisce sullo sfondo della cornice cristiana nella quale s’inserisce e la dignità umana si disperde «in the fairy tale of immortality – a timeless paradise populated by bodies to glorious to be avatars of the earthly originals».14
Ma, dal momento che l’Orazione di Pico della Mirandola non tratta di dignità umana, e considerato che, se anche lo avesse fatto, quella dignitas sarebbe qualcosa di molto diverso dall’odierno modo di considerarla, come – cioè – valore ontologico e morale di cui tutti gli esseri umani godono in quanto tali, in che modo si è giunti a considerare quest’opera come il momento genetico di quel concetto tanto caro a noi moderni e l’esempio più fulgido della filosofia rinascimentale dell’uomo?
La seconda parte del lavoro di Copenhaver è dedicata alla ricostruzione di questa storia ingarbugliata, al centro della quale torna nuovamente Kant e la storiografia che si è nutrita dei principi della sua filosofia. Infatti, per la storia della fortuna di Pico fondamentale è stata l’attenzione che il kantiano Wilhelm Gottlieb Tennemann nella sua Geschichte der Philosophie (1798-1812) ha dedicato all’Orazione – un testo fino ad allora pressoché sconosciuto – e, in particolare, la sua decisione di rendere il latino dignitas con il termine tedesco Würde, legando da quel momento in poi l’opera pichiana alla filosofia di Kant.
Da allora in poi si farà sempre più strada l’immagine di Pico come «a champion of human dignity and freedom—specifically the modern, worldly freedom to shape one’s character by exploring nature and humanity»,15 che ha trovato la sua espressione più influente nel grande affresco dell’età rinascimentale dipinto da Jacob Burckhardt nel suo Die Kultur der Renaissance in Italien (1860). Questa immagine di Pico della Mirandola avrà vita lunga e si arricchirà di nuove sfumature – in particolare dopo la prima guerra mondiale – diventando uno standard interpretativo che sopravvive fino ai giorni nostri e che si è esteso al di fuori degli studi specialistici, andando a informare le narrazioni comuni e l’immaginario collettivo che investono un’intera epoca ed un concetto: quello di ‘humanism’.16
Nel suo lavoro Copenhaver dedica ampi e dettagliati passaggi agli sviluppi di questa linea interpretativa, che egli segue su un duplice versante. Su quello anglofono spiccano in particolare le figure di Ernst Cassirer e Paul Kristeller,17 i cui nomi, tra l’altro, compaiono – insieme a quello di John Herman Randall – tra i curatori del volume già ricordato The Renaissance Philosophy of Man, nel quale «to lead a parade of Renaissance liberators, the Pico idolized by Cassirer and Burckhardt and Symond was the ideal drum major»18 e l’Orazione era il suo strumento. Il secondo versante è quello della ricezione dell’opera di Pico della Mirandola in patria19 – in Italia – dove, per Copenhaver, problemi filosofici si sono sovrapposti a questioni politiche e ideologiche almeno a partire dal Risorgimento, quando «liberals and nationalists were lighting fires of revolution and feedig the patriotic flames with local history».20 Anche in questo caso sono due gli autori che più degli altri hanno contribuito a trasformare Pico in un profeta della dignità umana. Il primo è Giovanni Gentile che nel suo fondamentale articolo ‘Il concetto dell’uomo nel Rinascimento’ (1916),21 pur essendosi occupato solo marginalmente di Pico, recuperava i caratteri fondamentali del Rinascimento di Burckhardt, riadattandone il background kantiano alla sua personale interpretazione dell’hegelismo. Il secondo è Eugenio Garin, autore, nel 1937, di una monografia su Pico della Mirandola che costituisce a tutt’oggi un punto di riferimento fondamentale per gli studiosi e nella quale, secondo Copenhaver, veniva abbandonata l’impostazione tradizionale degli studi pichiani in Italia, per rifarsi, piuttosto, a Gentile e alla sua idea di dignità e umanesimo.22
A questo punto, però, può sorgere una domanda: dal momento che la riscoperta dell’Orazione è solamente ottocentesca e che, come ci avverte Copenhaver, la fama di Pico della Mirandola e del suo genio non ha conosciuto interruzioni sin da quando il Conte era ancora in vita, intorno a quali elementi ruotava, allora, la sua reputazione?
Philosopher, humanist, celebrity? Only the last description holds securely for Pico, whose fame has been manipulated and distorted for 500 years, sometimes with malice. His nephew, when he put Pico’s writings in print, manipulated his uncle’s letter to match the pious Life that he wrote—a family hagiography. After the prince’s sainthood was revoked in the Enlightenment and Voltaire called him a lunatic, others restored his honor by turning him into a Cartesian liberator and then a proleptic Kantian, flying a banner of human dignity and modernity. Later a Jesuit propagandist (Oreglia) debased his memory by smearing it with the blood libel, before another philosopher (Gentile) sanitized the tale again by updating the Kantian Pico for Italian Hegelians.23
Questi sono solamente alcuni dei personaggi e delle vicende che compongono la storia che Copenhaver ci racconta dettagliatamente nel suo lavoro e dalla quale emerge che, prima dell’Ottocento, la fama di Pico della Mirandola, in Italia e altrove, oltre che all’eccezionalità delle sue vicende biografiche, si costruiva intorno alla sua straordinaria presa di posizione contro l’astrologia e, soprattutto, alla sua invenzione della Kabbalah cristiana.
E proprio intorno a quest’ultimo punto ruota, infine, l’interpretazione dell’Orazione che Copenhaver fornisce negli ultimi tre capitoli del suo volume e che segue le indicazioni di un altro studioso, Chaim Wirszubski, «the first to unlock the mysteries of the celebrated speech».24 Ma perché si parla di misteri? Copenhaver parte dal presupposto che segretezza e riserbo siano metodi dell’Orazione, un testo costruito con lo scopo preciso di nascondere il suo messaggio a coloro che non erano preparati ad accoglierlo. Quale messaggio? Che gli uomini debbano incamminarsi su di un percorso ascetico che li conduca ad abbandonare la natura umana per giungere, attraverso l’imitazione della vita dei Cherubini, all’unione con la divinità, all’annullamento del sé in essa. Siamo ben lontani, dunque, dall’idea di una dignità specificamente umana, riconducibile, cioè, all’esistenza corporea e terrena degli esseri umani. Dignità, semmai, si definisce nei termini di un’aspirazione che, paradossalmente (per noi moderni), si realizza solamente quando all’umano si rinuncia, per seguire la vita degli angeli e unirsi così con Dio. Nell’Orazione e nelle Conclusioni – fondamentali, secondo Copenhaver, per comprenderla correttamente – Pico descrive, dunque, un percorso di studi che si costruisce per gradi successivi. «The whole program is a regimen, not just instructions for students, but also transformation for initiates»,25 che è sia teorico che pratico e che dall’etica e dalla dialettica si sviluppa attraverso la filosofia naturale, la teologia e la magia, per giungere, attraverso «Kabballah’s deeper intimations of divinity at higher levels of experience»,26 all’unione mistica.
Con questo lavoro Brian Copenhaver aggiunge un nuovo, importante capitolo agli studi sull’influenza della tradizione ebraica e cabalistica nell’opera di Pico della Mirandola iniziati con Wirszubski alla fine degli anni Ottanta, proseguiti nell’edizione critica dell’Orazione curata da Francesco Bausi e al centro del progetto The Kabbalist library of Pico della Mirandola portato avanti da Giulio Busi e altri studiosi. Ma in questo volume – a mio parere – spiccano soprattutto la volontà e l’ambizione di fare di Pico della Mirandola uno specchio in grado di riflettere gli errori di cui siamo vittime noi moderni, soprattutto quando guardiamo a un’epoca come il Rinascimento, di cui noi stessi abbiamo contribuito a scrivere la mitografia. In particolare, Copenhaver ci spinge a notare che i fraintendimenti che ancora oggi investono l’Orazione sono sintomatici della confusione che più generalmente esiste sul concetto di ‘dignità’ in termini moderni, in particolare quando lo si pone al centro di una scala di valori che si definiscono ‘umanistici’. Così facendo, pur essendo anzitutto un contributo nel campo dei Renaissance Studies, il libro di Copenhaver ha il merito, soprattutto sul versante anglo-americano delle ricerche storico-filosofiche, di evidenziare l’efficacia del ricorso a fonti e metodologie appartenenti ad ambiti di ricerca differenti per dare vita ad una «philosophical history of philosophy as cultural history».27